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I NUOVI CONTRATTI A TERMINE NELL’ORDINAMENTO GIURIDICO ITALIANO

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ROSSELLA LO GALBO

International

L’ordinamento giuridico italiano ha ampliato la possibilitá di stipulare contratti a termine di durata superiore a 12 mesi e fino a 24 mesi nei casi di esigenze identificate dall’impresa e dal laboratore.

Attualmente la normativa in vigore in materia di contratti a termine prevede che, decorsi i primi 12 mesi liberi, la prosecuzione a tempo indeterminato del rapporto di lavoro sia consentita (fino a 24 mesi) in questi casi concreti:

1) Esigenze sostitutive;
2) Nei casi previsti dai contratti collettivi;
3) Per le specifiche ragioni aziendali definite nel contratto individuale di lavoro. Questo requisito  é stato inserito in via transitoria dal decreto legge 48/2023 fino al 30 aprile 2024, al fine di sopperire all’eventualità che il contratto collettivo applicato dal datore di lavoro non abbia previsto le causali per l’apposizione del termine di durata al rapporto.

Il rinvio alla disciplina indicata dai contratti collettivi (di tutti i livelli, incluso quello aziendale) per individuare i casi di legittimo ricorso al termine di durata superiore a dodici mesi risponde a una precisa scelta normativa dell’attuale maggioranza, che ha utilizzato questo meccanismo per eliminare le causali introdotte dal decreto Dignità (decreto legge 87/2018).

Secondo la nuova regolamentazione del Decreto Legge 48/2023 sono state mantenute  le esigenze sostitutive di altri lavoratori, mentre le altre condizioni («esigenze temporanee e oggettive estranee all’ordinaria attività» e «incrementi significativi e non programmabili dell’attività ordinaria») sono state sostituite dal richiamo alle fattispecie individuate dai contratti collettivi.

L’ articolo 19, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 81/2015 prevede che, laddove i «contratti collettivi di cui all’articolo 51» non abbiano previsto casi specifici di utilizzo del contratto a termine oltre i dodici mesi iniziali, la prosecuzione del rapporto a tempo determinato sia possibile a fronte di «esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti».

È stata recuperata una tecnica normativa che aveva prodotto nei decenni un vasto contenzioso giudiziale (l’articolo 1 del decreto legislativo 368/2001 ammetteva l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro «a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo»), in cui era prevalso l’orientamento giurisprudenziale per cui sono nulle le clausole che non indicano in termini specifici gli aspetti materiali e concreti delle esigenze aziendali richiamate nel contratto individuale. Attualmente, il periodo di tempo concesso ai contraenti individuali per sopperire alle lacune dei contratti collettivi si é limitato alla scadenza di fine aprile 2024.L’emendamento al Milleproroghe posticipa la scadenza al 31 dicembre 2024, evitando che per vasti segmenti produttivi, in attesa che la contrattazione collettiva si adegui pienamente, lo stop ai contratti a termine per le imprese intervenga dopo soli 12 mesi.

È il caso di osservare, peraltro, che già in passato il legislatore aveva previsto che l’apposizione di un termine al contratto di lavoro fosse consentita «nelle ipotesi individuate nei contratti collettivi di lavoro» (articolo 23, della legge 56/1987) e anche in quel caso si era affermato un indirizzo giurisprudenziale per cui le causali previste dalla contrattazione collettiva dovevano risultare oggettivamente apprezzabili e non limitarsi all’enunciazione di esigenze generiche. È un campanello d’allarme da non sottovalutare, che dovrebbe indurre le parti sociali a sviluppare previsioni contrattuali che declinino in termini specifici i “casi” di ricorso al termine di durata.